A.C. 1238
Grazie, Presidente. Rappresentante del Governo, colleghe e colleghi, il dibattito pubblico, politico e parlamentare di questi mesi sul tema del lavoro, a mio avviso, è emblematico dell'enorme distanza che c'è ancora oggi tra la destra e la sinistra in questo Paese. Chi per anni ci ha raccontato che destra e sinistra non esistono più, perché non c'è alcuna differenza nelle proposte, leggendo invece il testo di questo decreto e ascoltando i vostri interventi in quest'Aula e peggio ancora in televisione, sentendo le voci e il grido che arriva dalle manifestazioni di piazza, non può che ammettere che c'è un approccio molto diverso sul tema del lavoro e della lotta alla disoccupazione, alla povertà e alle disuguaglianze. Questa profonda differenza non solo esiste, ma si fa sempre più marcata. Su questo provvedimento si sono scontrate due visioni del mondo. Da una parte c'è una destra conservatrice, corporativa, anacronistica, convinta ancora che i profitti delle imprese possano crescere solo tenendo bassi i salari e sacrificando i diritti dei lavoratori e delle lavoratrici, in nome della competitività e dell'individualismo. Sei povero? È perché non lavori. Non hai un lavoro? È perché non lo puoi trovare. Non guadagni abbastanza per arrivare a fine mese? È colpa tua, perché non ti impegni abbastanza. La colpa è sempre dei lavoratori, della catena debole del processo. Prima di tutto, proporrei alla maggioranza e al Governo un esame di coscienza. A volte, onorevoli colleghi, se le cose non vanno è perché chi governa non è in grado di farle andare. Basta fatalismo, basta scaricabarile, rendetevi conto che state favorendo una narrazione tossica sul lavoro in questo Paese. Noi ci collochiamo dall'altra parte del campo e rifiutiamo totalmente questa narrazione, figlia del peggiore conservatorismo thatcheriano. Continueremo a scendere in piazza, come abbiamo fatto in questi mesi, a fianco delle lavoratrici e dei lavoratori, dei disoccupati, di coloro che si sentono abbandonati dallo Stato, di quelle tante donne che avrebbero dovuto andare in pensione e che per colpa vostra non hanno potuto. La prima donna Premier cosa ha fatto? Ha cancellato una misura di sostegno alle donne e non ha consentito a circa 20.000 donne di andare in pensione in via anticipata. Questo è il vostro modo di lavorare e noi staremo sempre dall'altra parte, dalla parte di chi cerca un lavoro dignitoso, un lavoro sicuro, una paga equa. Insomma, per opporsi a questa destra, destra-centro, abbiamo bisogno di una sinistra che torni a chiedere a gran voce salari più alti, diritti e tutele per tutti, anche nel mercato del lavoro che cambia, per dipendenti e autonomi, orari e forme di organizzazione del lavoro più flessibili e attenti al corretto bilanciamento vita-lavoro, perché solo questa è la strada per aumentare la produttività delle nostre imprese. Lo dico a chi ci ascolta da fuori: siamo al fianco di quanti nel Paese hanno la giusta paura che i provvedimenti di questa maggioranza peggioreranno ancora la loro condizione e quella dei loro figli. Respingiamo con forza agli attacchi di una destra che vorrebbe cancellare il nostro welfare state e aizzare una guerra tra i poveri. Abbiamo bisogno di un'opposizione nel Paese in Parlamento che ricordi al Governo che la povertà non è una colpa. Le difficoltà sociali ed economiche sono spesso frutto di diversi fattori, che non si aboliscono per decreto. Lo voglio dire con chiarezza: servono misure mirate di sostegno al reddito e politiche attive del lavoro. Se il Governo avesse voluto fare un regalo ai lavoratori in occasione della loro festa o anche solo fare un passo nei loro confronti, avrebbe dovuto approvare una legge sul salario minimo per combattere la piaga del lavoro povero nel nostro Paese. Invece, ha scelto di fare esattamente l'opposto. Se dovessi sintetizzarlo in una frase, direi che il Governo ha considerato urgente un decreto, per precarizzare ulteriormente il lavoro in questo Paese, puro masochismo di Stato e pura cattiveria gratuita, perché, nei fatti, in questo decreto non c'è alcuna norma che, numeri alla mano, aiuterà la produttività o la competitività delle imprese italiane, non c'è alcuna prospettiva di crescita economica nel Paese. Andiamo per ordine.
Ricorderete tutti l'enfasi mediatica, la scenetta messa in piedi dalla Premier, anzi, pardon, dal Presidente del Consiglio e dalle sue eccellenti comparse, in quel video di propaganda, in cui ci raccontava che si erano riuniti il 1° maggio per approvare il più importante taglio delle tasse sul lavoro degli ultimi decenni. Ebbene, ci abbiamo messo poco, tutti quanti, a capire che si trattava di una bugia, di una grande bugia. Per questo, dopo le sue roboanti affermazioni, la Presidente Meloni, pardon, il Presidente Meloni, non ha potuto tenere una conferenza stampa a margine del Consiglio dei ministri. Qualcuno, probabilmente, in quella sala stampa, le avrebbe chiesto di verificare le sue affermazioni e ricordarle che, solo un anno prima, con la legge di bilancio del 2022, il precedente Governo aveva stanziato, nell'ordine, 7 miliardi di euro per ridurre l'IRPEF, 1 miliardo di euro per l'IRAP, 1,8 miliardi di euro per ridurre temporaneamente, per tutto il 2022, i contributi previdenziali per i redditi fino a 35.000 euro, a cui ad agosto si è aggiunto oltre 1 miliardo con il decreto Aiuti-bis, che, per fortuna, almeno questo, il Governo Meloni non ha fatto altro che confermare.
Chiariamolo subito: noi siamo per l'abbassamento delle tasse del lavoro. D'altronde, tutti i Governi sostenuti dal Partito Democratico hanno lavorato in questa direzione. Il punto è che questo taglio del cuneo contributivo è servito al Governo per coprire il taglio del reddito di cittadinanza ed aprire una nuova stagione di precarizzazione del mercato del lavoro. Voglio partire subito da quest'ultimo punto. L'articolo 24 del decreto-legge modifica l'attuale norma sui contratti a tempo determinato, stabilendo che potranno avere una durata massima di 24 mesi e non più di 12 mesi, senza dover fornire particolari giustificazioni. Di fatto, la norma cancella le causali che erano richieste per l'impiego per la proroga dei contratti a termine, ovvero le esigenze, temporanee e oggettive, connesse a incrementi straordinari dell'attività. Il nuovo testo dice che le parti potranno individuare le esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva per prorogarne la durata.
Quando leggiamo le parti, però, dobbiamo fare una considerazione. Pensiamo davvero che i datori di lavoro e i lavoratori siano da mettere sullo stesso piano? Abbiano la stessa forza contrattuale? Evidentemente no. Allora, ancora una volta, questa destra dimostra quello che vuole fare, così come anche altre forze politiche hanno provato a costruire nel tempo anche qualche leader magari, cioè la disintermediazione sociale. Ecco, in un momento in cui avevamo un'occasione straordinaria e storica come le risorse del Next Generation EU e potevamo davvero ricostruire un patto tra gli italiani e dare maggior forza non solo ai salari, ma a una contrattazione collettiva e, quindi, ridare centralità ai corpi intermedi di questo Paese, che ci servono per tenere lo stato sociale, questo Governo, invece, lavora sulla disintermediazione e, ancora una volta, lascia da sole le persone, soprattutto i lavoratori e le lavoratrici più deboli, di fronte a una contrattazione che rischia naturalmente di prevaricare. E anche questo - noi lo rivendichiamo con forza - è un errore politico enorme, che produrrà dei danni drammatici sul piano delle garanzie dei lavoratori e, in generale, su come è organizzata la nostra democrazia. Io volevo sottolineare questo, perché è uno degli aspetti, secondo me, più delicati.
Inoltre, me lo faccia dire, Presidente, questo è un Governo che si riempie la bocca di natalità. Anche in questo caso, il Governo ha fatto qualcosa per aumentare il lavoro di qualità, favorire il lavoro femminile e l'occupazione stabile? Sappiamo che la maternità rappresenta, ancora oggi, nel 2023, nonostante gli sforzi normativi, un elemento che discrimina la continuità al lavoro delle donne. Questo Governo ha agito in questa direzione? Assolutamente no. Da un Governo che si diceva intenzionato a invertire la tendenza dei nostri giovani concittadini ad avere figli, mi sarei almeno aspettata una voce più forte sull'attuazione, per esempio, della legge n. 162 del 2021, impropriamente chiamata solo legge sulla parità salariale, ma che prevede delle norme di attenzione al welfare aziendale, al sostegno alle carriere delle donne nel mercato del lavoro, alle discriminazioni dirette e indirette sui luoghi di lavoro. Ecco, di tutto questo il Governo naturalmente non parla. Non lavora né per la parità e nemmeno per tentare di stabilizzare i contratti dei giovani inseriti nel mercato del lavoro, riducendo dunque i margini di impegno e proroga dei contratti brevi per consentire loro di scegliere prima o con maggiore tranquillità se avere dei figli. Invece, il Governo decide di andare nella direzione opposta, non è in grado nemmeno di prendere un impegno su un ordine del giorno per spendere le risorse previste dal PNRR per costruire gli asili nido in tutto il Paese. E anche questo è un elemento che voglio sottolineare, Presidente, perché quella è un'occasione storica, non solo per riformare il nostro Paese, ma per dare l'opportunità a tantissimi bambini e bambine nel nostro Paese, che, al nord come al sud, hanno la necessità di avere, giustamente, accesso alla scuola e agli asili nido, in questo caso in maniera diffusa in tutto il Paese.
Invece noi rischiamo di inasprire ancora di più le disuguaglianze. Queste scelte sono pericolose per la tenuta non solo del nostro welfare State, ma in generale anche per i conti pubblici. Altro che prudenza. Qui, se non remiamo tutti in questa direzione, in una direzione diversa da quella scelta da questo Governo, andiamo a fondo. Eppure il Partito Democratico si è reso disponibile.
Abbiamo incalzato il Governo sul PNRR proprio perché noi vogliamo dare un contributo nell'interesse del Paese e nell'interesse della crescita del nostro Paese e dello sviluppo di un Paese più giusto. Ma da questo punto di vista, naturalmente, la destra è silente. Ce lo ha ricordato anche il Governatore della Banca d'Italia, Ignazio Visco, che approfitto per ringraziare per il lavoro di questi anni, il quale, nelle sue considerazioni finali del 31 maggio, ha richiamato tutta la politica a guardare, con preoccupazione a proposito, a quella quota del 20 per cento di giovani che, dopo 5 anni dall'ingresso nel mercato del lavoro, è ancora precaria, perché poi sono proprio quei giovani che sono esausti e che cercano rifugio all'estero.
Istat, Ministero del Lavoro e INPS concordano che abbiamo oltre 3 milioni di lavoratori e lavoratrici con contratti a termine e che i settori più precari sono turismo e ristorazione. In questi settori abbiamo due problemi strettamente legati tra loro: i salari troppo bassi e la mancanza di manodopera. Dunque, quale dovrebbe essere la soluzione? Le regole del mercato del lavoro vorrebbero che, in un settore in forte ripresa come quello del turismo, i salari dovrebbero aumentare ed essere più stabili per attrarre nuovi lavoratori. Cosa fa, invece, il Governo? Va nella direzione opposta, sceglie di allargare ulteriormente l'impiego dei vaucher, dopo averli reintrodotti con la scorsa legge di bilancio, prevedendo, all'articolo 37, un tetto a 15.000 euro annui per chi opera nei settori dei congressi, delle fiere, degli eventi, degli stabilimenti termali e dei parchi divertimento. Di fatto, la norma rende perfettamente sostituibili i voucher - che, ricordiamolo a proposito di peggioramenti introdotti al Senato, potranno di nuovo essere comprati in tabaccheria - a un contratto di lavoro a tempo determinato stagionale, che ovviamente avrebbe anche maggiori tutele per lavoratrici e lavoratori, cancellando gli sforzi di anni di Governo del centrosinistra per introdurre nuovi strumenti per sostenere il lavoro stagionale.
Come se non bastasse, sempre con questo decreto, il Governo sceglie di far pagare a tutti i contribuenti italiani il costo di un ulteriore sgravio fiscale per il lavoro straordinario solo del comparto turistico. E perché lo fa? Grazie all'inchiesta giornalistica di Report, oggi è chiarissimo: perché siamo di fronte a un gigantesco conflitto di interesse, che avevamo già denunciato quando la Ministra Santanche' era stata nominata presso il Ministero del Turismo. Oggi viene fuori che la sua gestione aziendale è caratterizzata da pagamenti in ritardo a dipendenti e fornitori, stipendi dovuti non pervenuti e versamenti di contributi non effettuati. Ma come? Festeggiate un taglio del cuneo contributivo e poi si scopre che un vostro Ministro proprio non versava i contributi? Ormai è chiaro che la Meloni ha scelto di affidare il Ministero del Turismo del nostro Paese ad un'imprenditrice che non sa dove sta di casa l'etica imprenditoriale e che, per di più, ha dimostrato scarsa capacità di guidare un'azienda, figuriamoci l'intero comparto turistico italiano. Ma vi sembra normale che un Ministro, che ha avuto nella sua vita condotte societarie così gravi, possa riscrivere le norme del mercato del lavoro del settore turistico, della ristorazione e dell'accoglienza? Su questo, come Partito Democratico, pretendiamo che la Ministra venga a spiegare in quest'Aula e al Paese perché dovremo ancora fidarci della sua buona fede, oppure faccia un passo indietro per dignità istituzionale (Applausi dei deputati del gruppo Partito Democratico-Italia Democratica e Progressista). Vi ricordo che in passato ci sono state dimissioni per il mancato versamento dei contributi ad una lavoratrice: lo dico alla Sottosegretaria, se vuole farlo presente. Al Governo e alla maggioranza dico questo: state tranquilli che la stagione turistica sarà da record come sempre, anche senza la straordinaria campagna “Open to meraviglia”.
Come dicevo prima, il taglio del cuneo fiscale non serve solo a coprire le scelte del Governo sulle regole contrattuali del mercato del lavoro. Sappiamo bene che questo decreto-legge nasce dall'esigenza di riscrivere le norme sul reddito di cittadinanza, che, pur con tutti i suoi limiti, che riconoscevamo, era rimasto uno dei pochi strumenti di contrasto alla povertà. La maggioranza, da anni, ha investito in una campagna mediatica e di disinformazione contro una bandiera degli avversari politici - le bandierine ideologiche, le loro preferite da sventolare -, disinteressandosi della dignità umana, della persona e della famiglia. Viviamo in un Paese in cui è impossibile emanciparsi da una condizione di difficoltà economica. Dobbiamo dirlo. Avete avuto il coraggio di raccontare al Paese che tutti i percettori del reddito di cittadinanza sono dei fannulloni.
I dati dell'ANPAL, in realtà, ci dicono che, se impieghiamo il criterio della distanza dal mondo del lavoro e non esclusivamente criteri anagrafici, solo il 3 per cento dei percettori di reddito di cittadinanza è realmente occupabile. Dunque, ciò che serviva era migliorare e potenziare la presa in carico del percettore di reddito e un percorso di reinserimento nel mercato del lavoro; su questo aspetto avremmo potuto lavorare insieme, per ovviare ai problemi e ai limiti che sono emersi. Avete preferito, come sempre, la strada più semplice, quella di tornare indietro, che però si rivela anche essere quella più pericolosa, ripeto, per la tenuta sociale del Paese; e naturalmente avete deciso, in questa Camera, di mettere ancora una volta l'ennesima fiducia, proprio evitando il dibattito.
Se consideriamo i dati, l'Istat ha certificato che nel 2022 un italiano su quattro ha vissuto a rischio povertà, un dato aggravato dalla pandemia, dalla guerra e dalla successiva crisi energetica; stiamo parlando di circa 15 milioni di individui che si trovano in una situazione di esclusione sociale, ovvero che hanno difficoltà ad accedere all'acquisto di beni primari, tra cui una abitazione adeguatamente riscaldata e una dieta bilanciata e, tra questi, sono 5,6 milioni i poveri assoluti. L'enorme rischio che vedo all'orizzonte è che, con la crescita dell'inflazione – che, notoriamente, è la tassa più iniqua e che ricade indiscriminatamente su tutti, anche sui prodotti di prima necessità -, questo dato possa aggravarsi.
Dato questo quadro, non bisognava assolutamente disinvestire su strumenti di lotta alla povertà. Non dobbiamo poi dimenticarci che, a causa di alcune caratteristiche del mercato del lavoro italiano – penso, ad esempio alla grandezza media delle imprese italiane e alla mancata crescita dei salari -, è cresciuto spaventosamente il numero di persone che, pur lavorando, permangono in condizioni di povertà.
Confcooperative ci dice che ci sono 3,8 milioni di lavoratori che ricevono una retribuzione annuale uguale o inferiore ai 6.000 euro, con un 10,2 per cento di lavoratori in povertà relativa, dato che sale al 17,3 per cento per gli operai e al 18,3 per cento per gli occupati nelle regioni del Sud. Nel 2021, il reddito di cittadinanza ha evitato la caduta di ben 6 punti percentuali del reddito disponibile delle famiglie del 20 per cento delle famiglie più povere. Sempre secondo l'Istat, a testimonianza delle forti disuguaglianze presenti nel nostro Paese, il reddito del 20 per cento delle famiglie più benestanti, nel 2021, è stato, in media, pari a 5,6 volte quello delle famiglie più povere, ma sarebbe stato pari a ben 6,1 volte senza il reddito di cittadinanza.
Dunque, io ritengo che, legittimamente, il nuovo Governo possa scegliere di operare una riforma di questo strumento, anche se mi piacerebbe che questo Paese diventasse una democrazia matura, nella quale ogni nuovo Governo non finisce per smontare le politiche dei Governi precedenti, senza aver valutato gli effetti concreti delle misure messe in atto, perché il monitoraggio delle misure è molto importante quando dobbiamo decidere soprattutto sulle misure che davvero possono cambiare la vita quotidiana delle persone. Trovo molto sbagliato che si metta mano allo strumento con l'obiettivo, invece, di fare cassa e, anziché modificarlo per migliorarlo, per modificarne alcune storture, per arrivare con maggiore efficacia alla platea di coloro che effettivamente necessitano temporaneamente di un aiuto economico per risollevarsi, i nuovi criteri di occupabilità, costruiti non sulla base di criteri che misurano la reale possibilità di accesso al mercato del lavoro, ma sulle responsabilità di cura e della composizione familiare, escludendo così quasi la metà della platea degli attuali beneficiari, continuando però a offrire loro percorsi di inclusione e lavorativi totalmente inadeguati, non aiuterà. La netta separazione, ancora, tra i percorsi di inclusione sociale e quelli di inserimento lavorativo, senza aver aggredito le difficoltà legate alla costruzione della presa in carico delle esigenze dei singoli percettori e con la chiusura di ANPAL non crea perplessità solo nell'opposizione, ma in tutti quei mondi, anche del Terzo settore, che da sempre si sono occupati di povertà, nel nostro Paese; penso ovviamente a quanto detto dagli esponenti della Caritas in audizione o a quanto ha scritto l'Alleanza contro la povertà. INPS e ANPAL hanno poi dimostrato come le persone che versano in stato di povertà relativa o assoluta siano molto diverse, per condizioni sociali, educative e per esperienze lavorative. Queste caratteristiche complesse e non uniformi della popolazione coinvolta nelle misure di contrasto alla povertà, soprattutto nella forma del reddito minimo possono appunto dare spazio a forme diverse di intervento, come emerge anche dalle diverse esperienze internazionali, in modo particolare quelle europee. Continua, però, a non trovare spazio un approccio intersezionale di analisi delle caratteristiche soggettive che, per ampia parte della platea di riferimento, sono un elemento centrale, che richiederebbe una seria valutazione.
Dunque, quali modifiche avrebbe dovuto operare, secondo noi, il Governo? Sembrano essere caduti nel vuoto tutti gli studi di valutazione e anche le 10 proposte del Comitato scientifico presieduto dalla sociologa Saraceno sulle misure di contrasto alla povertà e sul reddito di cittadinanza. Tra le modifiche che credo avrebbero avuto un impatto più positivo sul tessuto economico e sociale delle nostre città ci sono sicuramente: l'eliminazione del requisito della residenza, che discrimina stranieri e senza fissa dimora, che dovrebbero essere, invece, raggiunti da queste misure, per diminuire il degrado e insicurezza, soprattutto nei grandi centri; la differenziazione del contributo per l'affitto, incrementandolo al crescere del numero del nucleo familiare; bene, invece, l'aumento degli incentivi alle imprese per le assunzioni, ma andavano rafforzate le misure per garantire un lavoro congruo, stimolare l'accesso a una buona occupazione, che aiuti concretamente i beneficiari a uscire da una condizione di povertà. Quanto all'attribuire ai servizi sociali comunali la valutazione multidimensionale della situazione della famiglia e dei singoli componenti, questa va bene, ma era necessario per questo, come abbiamo proposto, di investire cifre importanti, per permettere ai comuni di svolgere questo compito nel miglior modo possibile; così, invece, li sovraccarichiamo ancora una volta, senza giuste risorse e giuste competenze.
Con le modifiche introdotte dal decreto legge n. 48 del 2023, il nuovo assegno di inclusione non può, dunque, essere considerata una misura di contrasto alla povertà, perché ha finalità diverse e sostiene esclusivamente nuclei familiari in cui sono presenti soggetti fragili; chi è in condizione di povertà, ma non ha nel suo nucleo soggetti con tali caratteristiche, è escluso dalla misura. Di conseguenza, l'Italia diverrà l'unico e l'ultimo Paese in Europa senza uno strumento di lotta alla povertà universale, in contrasto anche con il recente indirizzo emerso nei consessi dell'Unione europea.
In buona sostanza, con questo decreto, non solo avete rinunciato ad affrontare il problema dei salari e avete ampliato le forme di precarietà, ma ci state allontanando sempre di più da quel modello di welfare state europeo statale e di impresa che vede nella Germania e nella Francia Paesi a cui ispirarsi, ma sappiamo bene, purtroppo, che voi preferite giocare nella Serie C e avere come alleati e punti di riferimento la Polonia e l'Ungheria.
Desidero, infine, ringraziare i colleghi del Senato e quelli della Commissione lavoro con cui ci siamo battuti, nel poco tempo che ci è stato concesso, per provare a modificare le criticità più evidenti di questo decreto e ripristinare uno strumento di sostegno al reddito, finalmente universalistico; abbiamo registrato un atteggiamento di netta chiusura, ma il gruppo del Partito Democratico continuerà a battersi per il lavoro di qualità, il contrasto alla povertà, la giustizia sociale, la cura delle fasce più fragili della popolazione, battaglie che sono alla base del nostro impegno politico e che non finiscono con il voto contrario a questo provvedimento; li trasferiremo nel Paese, nelle piazze, perché siamo sicuri che sempre più italiani si renderanno conto dei danni e dell'inefficacia delle vostre scelte già prima delle elezioni europee.